sabato 14 aprile 2018

Quadro imperfetto di Stefania Onidi




Si sa, un libro di poesia-un buon libro di poesia! – è un'atmosfera. Si sfoglia con la consapevolezza -e la discrezione dovuta- di entrare in casa d’altri; alla fine, sono i nostri pudori che svelano pudori e con loro familiarizzano: iniziano così le proiezioni, le somiglianze, tra chi legge e chi ha scritto. Consentiamo al libro di svelarci a noi stessi. Va da sé che, recensione o nota di lettura, a scriverne su quel libro, si finisce in parte per raccontarci.

Stefania Onidi è un pittore poeta, forse un poeta pittore e, comunque, non penso abbia importanza quale delle due arti abbia trainato l'altra. Ho letto da qualche parte -e lo condivido- che, chi scrive poesia, prima o poi, prende in mano la matita o i pennelli, come una necessità: dimostrare che le forme e la combinazione di colori dalle tonalità indecifrabili -come può essere il fondo di un’emozione- sono altrettante valide parole.

Nel suo libro, Quadro imperfetto – Bertoni Editore- poesie in immagini e parole, così sapientemente esposte da divenire le une appendice delle altre, non proprio una chiave di lettura, più un basamento, un’annodatura, a volte come una sbavatura importante - mi viene in mente un cirro: sembra un intruso nella limpidezza e, invece, a ben vedere, misura la profondità dell’azzurro. Una cosa è certa: immagini e parole non si possono disgiungere senza pregiudicare il significato pieno di quella pagina, segno di un unicum compatto, di un libro riuscito.

Più che entrare in casa di altri, come ho scritto all’inizio, qui, a tratti, sembra un tempio al silenzio: ora è come un passo leggero, lento e attento, e avanza si addentra; le pareti lo grondano, anche il vuoto -che lo custodisce contenendolo- forma degli strani echi, come da profondità di caverne
Immagini per lo più sensuali: sgocciolature alla Pollok, disegni a china, forme sinuose di donna, di belle donne, ma sarebbe riduttivo liquidare questa poesia -disegni o parole che siano- come poesia sensuale, di quelle a filo con l’erotico. Io la leggo profondamente fisica, rischiando quindi la tautologia: la poesia non potrebbe essere altrimenti, se non è pregna di fisicità è solo una pippa mentale: il corpo -da solo-/saprebbe di che vivere/l'anima no/si racconta dalla carne. La strofa è mia. Oserei dire, è nostra! 


(da pag. 15)

Valutare il vento
la sua luce tesa
la volontà di correre il vuoto.

Bastano mano e saliva.
Quel gesto antico e innocente di voler toccare il respiro
bucare l’aria.
Contare quanti nodi mi attraversano le dita.

In questa erosione segreta
declinare all’infinito i modi del mio esistere.


  
SOGNO

Ho sognato che ti nutrivi al mio seno
ma non crescevi tu e non crescevo io.
Rimanevi eterno bambino tra le mie braccia
troppo bianche per contenere tue future metamorfosi.
Ho sognato che ti baciavo gli occhi.
Ho sognato quel corpo che noi due inventammo
ancora prima di essere.



VERTIGINE

Mi svegliai su un campo di papaveri.
Albe di rosso fin dentro la pupilla.
In gola mi soffocava un sogno.
Sentivo l’odore della terra, mio unico abito,
sentivo le tue mani risalire il ventre, calde
ali, girandole di desiderio.
Ti guardai. Eravamo proprio io e te,
stretti, sul filo della lama di un tempo esatto e accolto
finalmente.
Tra i capelli un vento.
Nel suo abbraccio raggiro di sensi,
suono di parole, le tue.
– Ti ho assaggiato sillabe di miele direttamente
dalla bocca.
Amarti è un gioco (d’azzardo).



La versione di Penelope

Questa tela non vedrà la fine
rimarrà incompiuta. Il telaio è morto.
La vera novità è che non voglio aggiustarlo.
Non aspetterò più notizie dal mare.
Ho sempre ignorato le tue rotte,
non ho mai saputo di Circe o Calipso
ho sempre guardato le mie mani, vuote di te,
e di quel tuo nome sconosciuto ho ricamato
il ricordo.
I miei occhi son più profondi dei tuoi,
hanno sempre saputo guardare oltre e
custodire anche gemme senza valore.
Non ho dèi a cui rivolgermi o da sfidare,
quelli li lascio alla tua alterigia.
Scappo da me;
ma se di Clitemnestra ho il coraggio
non ne invidio la sorte,
e se la mia saggezza si veste d’impazienza,
allora merito un altro nome.
Che ne sa il mare della mia bellezza?
Che ne sapete voi del mio pudore e
della mia astuzia?
Abbandono queste vesti e lascio il dubbio
accarezzarmi la pelle coi suoi raggi affilati,
per sentire il brivido di una vita non scelta.
E tu ora
versami sulle palpebre un dolce sonno.