lunedì 22 gennaio 2018

Testi da “Zero al quoto”, prossima pubblicazione di Fabrizio Bregoli



È poesia di coscienza, termine inflazionato che si apprezza ancora nella sua etimologia: cum scire, un sapere insieme che non prescinde dall’altro in cui il poeta, se non è ben calato, si approssima come al suo prolungamento più naturale. Legittima o dovuta, l’approssimazione, poco importa, è questione morale che non tocca il poeta: il verso è il suo modo di abitare, cercare e trovare apertura al mondo.

A voler essere precisi, è poesia di adattamento della coscienza a qualcosa che solo   impropriamente   si   chiama   dolore, più   pertinente -umano, sereno- il montaliano male di vivere, una zavorra per i più, l’elefante rosa che tanti preferiscono –si illudono- ignorare, una sorta di cassetta degli attrezzi per il poeta: ogni   occasione   può   farsi   piombino, sonda, valido scandaglio dell’inesplorato che ci riempirà fino la morte.
È poesia dalle braccia tanto aperte quanto preoccupate nello sforzo di dedicare a quella approssimazione il suo specifico abbraccio, lo conferma il minuzioso svolgersi del pensiero nel verso, come a non voler far torto a nessuno, un pittore fauves che dosa mirabilmente di colore il suo pennello.

Se è vero –parodiando Groddeck- che non è tanto il lettore, ma è il buon libro ad analizzare noi, la produzione di Bregoli è una sorta di battistrada ben conscia che l’umano avrà mille sentieri per giungere a meta ma la sua poesia è tra le strade più luminose. (AC)

QUESTIONI GIURISDIZIONALI
Scale. Ne sale gli assiti
poco prima sconosciuti, indovina
androni, appartamenti dalle targhe
impolverate d’anni
e se bussa a quelle porte ne esala
a stento dalle serrature un esile
fumaiolo di polvere.
Stagna acqua dalle gronde,
più oltre rade un fruscìo di catene
quel che resta d’un cane in agonia.
A chi mai servisse quel censimento
era liturgia di pochi eletti
apprendere, la dovizia d’appunti
il puntiglio anagrafico
a quali arbitri ambisse, s’era solo
la disossata spunta degli assenti.
Dopo il disastro ai reattori, lo sgombro
i più savi erano migrati a nord
sui pianori, tra i boschi di betulle
grati del contendere arbusti alle alci.
Si dice che chi paghi dazio e assenta
o si lasci estorcere sconfessioni
si aggiudica la nuda proprietà
di queste sue macerie, il privilegio
di smemorare, diritto d’espatrio.
Indugia leggendo anche il suo, di nome
su quelle liste logore,
dubita a doverne certificare
esistenza, ragione o suo perimetro.
Potrebbe evaderne
uscirne illeso per vizio di forma,
tuttavia si vista, si legittima
cede a quel giogo.
Finalmente la vita
si sarebbe accorta di lui.
*
IL CONDOMINIO AZZURRO
Grandeggia un po’ più inquieto tra le spoglie
di casupole sperse alle campagne,
un monolito di cemento grezzo
che non vale la pena verniciare.
Ai piedi calza qualche stinta insegna
Mariani clinica veterinaria
la pizzeria d’asporto, il bar Sabbia
per illudere a non sai quale mare.
E tutto ha un senso asciutto di decoro
che non ammette indugio di colore,
solo le tapparelle sono azzurre
a non negare un angolo di cielo.
Gli striminziti spicchi dei balconi
sono poltrone messe in prima fila
sulle smancerie del Resegone
se si scrolla di dosso troppe nuvole.
Così succede che, per caso o errore,
qualche incomodo sbuchi dalle camere,
una vecchietta che sbanda sui tacchi
una badante russa con la pipa
quattro graziose all’incanto, un bimbetto
che pare scappato dai Martinìtt.
Dettagli che stonano, intrusi od angeli
nella luce sognante d’un Magritte.
Alcuni narrano che dopo l’una
nelle notti che brandiscono vento
– ma non sono da credere quei soliti
scavezzacollo sbronzi perdigiorno –
sulla pelle grinzosa di quei muri
si schiuda una pupilla color tuorlo
e in un trambusto di chincaglierie
il condominio si lucidi a festa,
in uno smalto intatto di maioliche
su tutta la facciata un solo palpito
balugini di quel suo cuore azzurro.
L’istante dove tutto si può assolvere.
Non dura che l’eterno di quell’attimo
che ci si trova già distratti e capita
d’inesorabilmente dover perdere.
Poi scocca un altro giro di lancette
e sgomita nei fianchi un nuovo giorno
uguale agli altri, la sua màcina onnivora.
*
FOSSE POESIA
Fosse poesia potrei indugiare
su qualche vezzo cromatico, un radere
di luce tra capelli e volto, indulgere
a un virtuosismo lirico, un pacato
trasgredire metrico, i trucchi buoni
che lusingano in una lana di fiato
stemperano la voce che s’aggruma.
Ma questa scena è minima, assoluta
non si concede appello, assoluzione.
Lui siede agli scalini, tra i piccioni
le gambe lacerate dalle piaghe
intruso tra quei cenci, qui recluso
in un rettangolo di cicche, di sputi
lo sguardo arrovesciato su detriti
di storie, ciò che ne resta tra le unghie
sudice, un bicchiere, stente monete.
Chiede nuda evidenza del suo esserci.
E non serve una poesia, un altro alibi.
*
ARBITRO DEL MINIMO
Un’altra fila svetta in tangenziale
una a una le auto brave s’inanellano
nella multicolore collanina
che si sciorina lenta lenta al bivio
di questa nuova uscita d’occasione.
Arese, nuovo centro commerciale.
La stessa cricca di marchi seriali
gli Zara, gli Intimissimi, i Mc Donald’s
Kasanova che sfodera padelle
Pandora che rispolvera il suo vaso
per chi non è di casa ai Compro Oro
lo smartphone che fa casta, fa tribù.

E fa invidia la razza sai di chi
rimane a terra, o controsterza con
debita grazia, alligna a bordo campo
ginestra tra asfalto e polvere.
E s’accontenta di remare a margine
nella reduce ritrosia d’indole
d’essere asola ad arbitro
del minimo, di ciò che tutti scansano.
Fa invidia chi desiste, chi s’avvale
del diritto di renitenza al consono.
Quelli che niente ha prezzo, tutto vale
tanto più se è vile. Quelli che pèrdono.


NOTA DELL’AUTORE

Gli uomini (o la loro ipotesi) riporta il titolo della prima sezione del mio nuovo lavoro “Zero al quoto” di cui è prevista la pubblicazione a Marzo 2018 per i tipi di Puntoacapo.
Assistiamo infatti ad un sempre più progressivo processo di spersonalizzazione dell’io che si dissolve nei paradigmi preconfezionati della nuova folla mediatica e virtuale, in cui il nome rimane semplice etichetta tassonomica perdendo la propria capacità di identificazione e nominazione di un’individualità unica ed irripetibile. Ciascuno di noi diventa quindi il proprio lui o lei generico ed indeterminato, spossessato della propria esistenza come possibilità che si concreta essendo pienamente vissuta. Primo piano e sfondo si confondono e si sovrappongono per dissolversi reciprocamente in vite frammentate, scorie d’universo.

Fare poesia dunque come testimonianza, passaggio di testimone che includa la comunità di tutti i passati e futuri attori dell’agone poetico, per difendere una parola ancora più fragile, imperfetta che necessita sempre più di inerire, evadere dal buio per farci riscoprire la nostra umanità.

PODERE CARESTIA

Non si chiedeva il senso del vegliare,
lui guardiano di cosa poi   
se era tutto disfacimento, i muri
una rovina di scorpioni ed edera.
Pure lo inebriava sostare immoto
tra quegli aratri, sfregarne residui
di spore e letame tra i polpastrelli,
sentirsi anche lui olla di quel destino
di terra e nuvole.

Non lo turbava l’insignificanza
di quel cerimoniale:
restare desto ogni notte, la nebbia
le calli dove scantona smarrita
qualche volpe esausta, ai tetti sconci
il raro guizzo d’un gatto selvatico
e il mattino sulla soglia il bicchiere
di latte tiepido, la ricompensa
di chissà quale mano
debitrice d’oblio, o di pietà.
Non lo inquietava assolvere
l’ambasciata a baluardo del nulla
sorbirlo stilla a stilla. Non diverso
sarebbe stato vivere.

ACCIAIO
 Vi indugia ancora, icona prigioniera
nell’intarsio d’oro della sua tavola,
dita indiscrete a gravare la soma
d’imposta immobilità. È sempre lui,
quel mondo già dato troppo per certo
quell’emanazione d’un sé corporeo
in cui accorta od incosciente intridersi.
Quella miscela spuria di ioni ed atomi
l’aria, più di tutto le manca,
lei che da anni nel polmone d’acciaio
ne inala ne esala quel lavorio
di vento sulla pelle
fino a farne afflato, alea di respiro.

Giardino di silenzio
si fa eco del mondo, sua cassa armonica
in cui raduna frantumi esperiti
subìti o solo immaginati,
si fa senso chiaro, s’accorda al cosmo
ne ascende ogni scala, assente al suo ritmo.
Brulichio di formiche, ronzio
di lampade o tremolio di vetri,
scalpicciare di passi o risa d’uomini.
Poco importa distinguerli.
Rumore di fondo, scorie d’universo.
 *
Hai ragione, Piero, siamo alberi
spicchiamo frutto, da radici che
non ci appartengono, o meno ancora
saprofiti che ineriscono a schegge
di corteccia, ad una cruna di verde,
e come dici, poesia è questo
porgere la mano, sperare prossimo
il cambio della guardia, e continuare
nella corsa, passare la staffetta
già sapendo la meta irraggiungibile
fragile la parola, perché l’unico
eterno che perdura è l’impossibile.
Perfetto nel non darsi.

Restano mani abrase, franto il fiato
l’orlo di buio che ci ha arato il viso.