giovedì 28 dicembre 2017

La ballata di Ester di Teresa Cuparo



Sarò la persona meno indicata a commentare il libro di Teresa Cuparo: non leggo narrativa da anni pur avendone fatto incetta fino a quasi trenta. È un pavimento, quello della narrativa, che sento troppo sdrucciolevole, avverto subito il tentativo di una “costruzione” e quanto sia lontana dalla realtà. Se proprio devo, concedo al nuovo e malcapitato romanzo 20/30 pagine: se mi prende, buon per noi, altrimenti lo defungo.

Al libro della Cuparo, La ballata di Ester edito da Emia, ho abboccato quasi subito -e quando dico abboccato ho dinanzi agli occhi l’immagine del pesce che si lascia convincere dall’esca- perché “impigliata” ad immagini e racconti audaci. Ma quella è solo l’esca: sono pagine -lo dico subito- che si prestano a diversi e interessantissimi livelli di lettura.

Nella mia esperienza di lettrice di narrativa ricordo che Iris Murdoch usò uno stratagemma simile. Non so se il libro in questione fosse La campana o Il mare il mare, il racconto era intervallato dai sapori di un protagonista buongustaio con la passione per la cucina: uno stratagemma che rendeva il tutto molto più intrigante.

Lo stile, se non è aggressivo, è comunque diretto, e la narrazione, che si dipana intorno alla protagonista Ester, è affidata anche ad altri personaggi accomunati tra loro da “un eccesso” che sta per verificarsi o si è già verificato nella loro vita.

Va subito detto che questo libro di un centinaio di pagine è il risultato di chissà quanta buona narrazione letta: saremo tutti nani sulle spalle di giganti, ma non tutti i nani riescono ad arrampicarsi su quelle spalle!
Nella struttura, riporta un po’ a Cent’anni di solitudine di Marquez: le vite di personaggi che si intrecciano in un lasso di tempo; per quanti bassi istinti affiorino, si riallaccia ad un altro capolavoro, Cuore di tenebra di Conrad. Cos’hanno in comuneQuel percorso di introspezione psicologica nell’animo umano, alla ricerca delle radici del male e delle sue motivazioni.

Teresa, nel corso della presentazione -condotta ieri, a Cutro, nella sala Polivalente Falcone Borsellino, con perizia ed esperienza, dal suo editore Italo Arcuri- ha raccontato di aver tratto la storia da un fatto vero e romanzato solo un po’: protagonista, di fatto, è una famiglia perbene dai saldi principi cattolici.

Ecco, allora, che ogni capitolo è titolato da uno dei dieci comandamenti. Ed anche qui c’è un rimando: il decalogo del regista polacco Kieślowski. Come nei film in questione, anche qui assistiamo a personaggi calati nella loro vita quotidiana dove emerge il peccato o la redenzione. E come in quei film, questo libro non dà risposte, stimola solo domande e domande intorno al male che ci abita:
- di quali profondità e nebulose possa essere la sua sostanza
- come e quanto ci appartenga a livello cosciente
- cosa può fare la sola volontà di fronte un destino che pare remarci contro
- da quando Freud ha individuato ‘sto benedetto inconscio - un aisberg i cui nove decimi sono sommersi e, quindi, sconosciuti, e solo un nono ci sarebbe noto- torna la domanda di sempre: siamo noi che viviamo o “siamo vissuti” dagli eventi
- allora, altra domanda d’obbligo: possiamo essere responsabili di ciò di cui non siamo coscienti? …

Anche l’epilogo a lieto fine della storia, secondo me, ha un che di incidentale perché il libro non vuole essere didattico formativo: al di là di alcuni pastelli molto ben riusciti -due per tutti: la menzogna ha una bocca vorace e danza sensuale e mascherata, beffando la vita; il dolore dell’assenza è una bestia che divora dentro, dilania la carne senza uccidere- dove il poeta Cuparo sembra dia uno spintone al narratore (perché Teresa Cuparo ha anche un gran bel verso!), lo stile è decisamente asciutto, quasi da cronaca.

Ecco allora che termino con l’ultimo dei miei accostamenti: Ester -non vi anticipo nulla della storia ma tratteggio il personaggio- è la dissoluta per antonomasia, l’affamata di sesso che, in verità, ha una vendetta da consumare, mi ha ricordato La Lupa di Verga.

Anche in Verga siamo dinanzi la rappresentazione delle pulsioni inconsce che attraversano l’animo umano e dei loro effetti spesso dirompenti. E come dicevo prima, al di là di alcuni accorati spezzoni poetici, anche qui prevale una narrazione asettica come se si volesse denunziare il male nella sua maestosità senza chiosarlo di opinioni. Caratteristica del verismo è la regionalità, e a me Ester sembra una perfetta calabrese, una donna meridionale molto istintuale, molto di pancia.

Nel suo complesso è un libro specchio: riflette un’immagine che appartiene indistintamente a tutti noi perché tutti, in potenza, siamo capaci di fare il male, di farci male, di uccidere di ucciderci, ma non tutti siamo in grado di rinascere.
L’ultima pagina è affidata ad una frase del Siracide che trovo sia la chiave di lettura e un’allerta per l’uomo di tutti i tempi: che nessuno in vita venga chiamato beato: un uomo si riconosce veramente alla fine.

Per Edgar Allan Poe, di un buon romanzo così come di una buona poesia, dovrebbe essere scritto prima il finale e, secondo me, è da quella citazione che Teresa ha iniziato a tessere con pazienza costanza e indubbia abilità questa fitta e spessa trama: il risultato è ottimo. Chapeau!