venerdì 14 agosto 2015

Oltre il margine di Sergio Pasquandrea



Fin dalle prime liriche mi era frullata un’idea sul loro sapore, idea che continuavo a rigettare, pensavo riflettesse la paranoia di alcuni poeti cattolici: il voler intravedere, a tutti i costi, stratificazioni di cristianesimo. Infatti, così non è, ma riaffiora un tema che prepotentemente lo richiama, un’assenza/presenza racchiuso in un che di malinconico, a tratti nostalgico: l’infinito. Aria fritta la mia -si dirà-, è nostalgia che affligge la stragrande quantità di poeti e artisti. Ma qui – obietto io - ha come colorazioni –splendide caleidoscopiche - tutte sue, perché pare – pare… - che nemmeno lo si cerchi quell'infinito, eppure … di lui qualcosa accade. Varrà bene una metafora su questa poesia e il suo autore per inquadrarlo al meglio: un aquilone, vive con pienezza il pezzo di cielo assegnatogli, fin troppo consapevole del suo guinzaglio.

È poesia che si srotola tutta su un gioco sottile, estremamente elegante, a tratti ironico in altri drammatico. Non c’è lirica, non un distico, che non nasca da un ampio o minuscolo pezzo di realtà, per lo più quotidiana –la più difficile, quella fatta di piccole cose che, se incastonate nell’arco della giornata, ti restituiscono un senso di pienezza, quasi un premio di cui ti stupisci: non hai fatto nulla di epocale e, forse, è proprio in ciò il tuo atto eroico: nell’averlo fronteggiato ed essere uscito indenne da quel quotidiano e la sua morsa.

Macchie

“Non vanno via” dice “rognose
sono ostili ai detergenti
e il trattamento rovina i tessuti.
Dovrò farle il sovrapprezzo.”
“Ma è sicuro che per forza? In fondo
il colore non è dirimente
e nemmeno la posizione rafforza
l’ipotesi”. E poi non dico:
quale sarebbe stata la traiettoria
quale la tangente alla pelle nuda
in uno di quei grigi compatti del crepuscolo
quando sei così prossimo alla rivelazione?
“Dia retta: vuole mica che non sappia
riconoscere il sangue?”. Non voglio:
ma lo stesso rifiuto di accettare
la perdita meglio pensare
che i fonemi guariscano le cesure
possano sempre suturarsi
che basti una sinalefe
o dell’acqua ossigenata.

Il vuoto

Lori in giardino con la bicicletta
traccia spirali d’acqua sul selciato:
il suo gioco è la scia
che subito svanisce
è la ripetizione del miracolo.
Il mio è in questi segni
scesi a macchiare il vuoto
a violare il silenzio.

Dal verso -e non so come faccia- cadono allusioni mediate implicite sommerse, quasi uno dei suoi carismatici chiaroscuri che lasciano a chi li vede –in chi lo legge- il compito di trovare i colori di cui, comunque, con un tratto, lascia tracce. Così ti ritrovi a vagolare con lui, l’autore, e frugare tra le cose … un oltre – il margine, termine che completa i titolo, Sergio lo conosce bene, è suo è nostro, ciò che veramente affascina e ci tira dentro la sua poesia, è solo un modo -un fare poetico- così particolare di raggiungere, in qualche modo, quell’oltre.

Il linguaggio di una disarmante semplicità –prerogativa dei grandi che Raffaele Lacapria ha magistralmente sintetizzato nella sua teoria dell’anatra- acquista piano il timbro di una voce che il lettore riconosce subito perché intima, così familiare: ogni lirica pare abbia la stessa intestazione e un solo destinatario: caro me... Ma in quel “me” il Nostro riflette una strabiliante campionatura di questa umanità. La potrei tranquillamente definire una silloge terapeutica nella misura in cui rende solidali col resto del mondo e, con lo stesso, ti rappacifica.

Liriche – da leggere tutte e, poi, rileggere – che si presentano come piccole grandi e soffuse rivelazioni. In una, È questo l’esilio (pag. 20), mi pare di intravedere, nell’ultimo verso, la definizione di infinito:

(Ciò che possiedo è ciò che più mi manca
ciò che ho intravisto premere la stoffa
senza poter mai completare il gesto).

Eppure a me sembra che, in qualche modo, quel gesto Sergio lo completi: così calato in una sorta di mistero caldaico, qualcosa di lui migra da un sé, che gli sta stretto, verso un Tutto, qui ruba i suoi spunti, li impasta con la sapienza che lo connota e ci rende più ricchi di una grande poesia.